II

Distrutta dalla meditazione estetico-critica romantica la nozione ibrida di poetica come equivalente di estetica e come complesso di regole buone per ogni poeta e magari per ogni tempo (mentre la Staël dirà «on se fait toujours la poétique de son talent»), proprio dal seno del romanticismo e dei suoi svolgimenti piú profondi e moderni (spesso in netto contrasto con le sue forme piú divulgate e vistose: poesia come soupir et sanglot, rapimento mistico-sentimentale e sfogo passionale immediato) si venne delineando un’accezione nuova della nozione di poetica come intimamente attinente allo stesso operare poetico, come consapevolezza attiva dell’ispirazione. E magari sino alla configurazione di una virtuale capacità critica del vero e grande poeta secondo le parole assai significative di Baudelaire: «Il serait prodigieux qu’un critique devint un poète et il est impossible qu’un poète ne contienne pas un critique... Tous les grands poètes deviennent naturellement, fatalement critiques... Je plains les poètes que guide le seul instinct; je les crois incomplètes»[1].

Dove nell’ultimo periodo meglio si può cogliere il senso piú legittimo e sintomatico della coscienza baudelairiana della radicale pertinenza della poetica al fare poetico[2] e si può verificare un’apertura di svolgimento critico che si intreccia con le accentuazioni del calcolo compositivo e quasi matematico della linea romantica e decadente, da Poe a Valéry, e magari con l’associazione esasperata, in certa zona simbolistica, dell’instintività quasi automatica e della sorveglianza critica (l’inconscience surveillée di Max Jacob), o con la piú lucida e classica affermazione di Thomas Mann nel suo saggio, Goethes Laufbahn als Schriftsteller, del 1907: «Der durchaus unintelligente Dichter ist der Traum einer gewissen romantischen Naturvergötzung, er existiert nicht, der Begriff des Dichters selbst, der Natur und Geist in sich vereinigt, widerspricht seinem Dasein... Etwas ganz anders ist es mit der Naivität der Unmittelbarkeit, dieser unentbehrlichen Bedingung alle Schöpfertums. Aber man braucht nicht zu sagen, und Goethe ist ein wundervolles Beispiel dafür, dass reinste Naivität und mächtigster Verstand Hand in Hand gehen können»[3].

Naturalmente occorrerebbe, con un lavoro apposito, precisare le forme e accezioni particolari che la nozione e l’uso di poetica vennero assumendo nello sviluppo della civiltà letteraria del secondo Ottocento e del Novecento da parte anzitutto degli stessi scrittori e nell’ambito delle loro poetiche programmatiche e concrete: ciò che recentemente ha cercato di fare, per il Novecento italiano, l’Anceschi[4].

Basti comunque costatare che nella zona postromantica, decadente, verista e novecentesca le dichiarazioni esplicite di poetica sia di gruppo sia, e soprattutto, personali si moltiplicano e si approfondiscono. Sí che lo stesso Anceschi poté facilmente munire la sua antologia di Lirici nuovi del 1942 di pertinenti dichiarazioni di poetica dei vari poeti antologizzati, e, seppure con certa sfasatura e incertezza metodologica che qui non è il caso di discutere, recentemente in Francia è stata pubblicata un’antologia[5] di bandi e affermazioni di poetica che, applicata a tutti i tempi, raccoglie la messe piú imponente e organica di documenti dalla zona otto-novecentesca e specie dall’ambito decadente, simbolistico e post-simbolistico.

Tanto che (senza con ciò invalidare la pertinenza della poetica ad ogni poeta e ad ogni tempo e farne, piú che la presa di coscienza di un elemento effettivo dell’arte, un corrispettivo di intellettualismo decadente e postdecadente) si potrebbe anche osservare che a volte l’esasperata attenzione alla poetica programmatica e alla coscienza critica del proprio operare può diventare il segno di una minore energia fantastica e di una certa commistione saggistica critico-artistica che può esser portata sino a certo puro sperimentalismo tecnico-linguistico e tematico-sociologico recente[6]. A cui è giusto reagire non in nome della romantica passione e della ispirazione incontrollata e mistica, ma in nome di una necessità interna del rapporto ispirativo elaborativo, di una storicità vissuta e non programmatica che non esclude, ma implica il concorso della direzione artistica, al modo che già Dante potentemente indicava nel rapporto fra il «dittar dentro» e l’«andar significando» che non potrebbe mai risolversi né in un automatismo sentimentale né in una sperimentazione stilistica sopraffattrice o sostitutrice dell’interiore mondo poetico.

Ma, al di là di questa osservazione, da assumere nei suoi precisi limiti storici, sta poi di fatto che alla cresciuta esplicita attenzione degli scrittori alla propria poetica ha corrisposto, seppur lentamente e in forma combattuta, un uso critico di tale nozione che piú recentemente può esser giunto sino all’abuso orecchiato e la cui latitudine, se non è prova di per sé di validità, è certo segno dell’esperienza di un problema effettivo presente in vari modi alla coscienza critica contemporanea.

E questa, di fronte alle preclusioni di un De Sanctis e poi, piú decisamente, di un Croce, le ha potute considerare, a vario livello, insufficienti e parziali, legate ai limiti estremi delle loro posizioni romantiche e postromantiche o viceversa non conciliabili con il fondo piú resistente della loro lezione storica. Il che può piú facilmente accertarsi, secondo me, nel caso del De Sanctis in cui il rapporto fra mondo poetico e realizzazione artistica implica, a ben guardare (e contro una nozione di poetica – «mondo intenzionale» – piú vòlta contro il classicismo regolistico che contro il senso piú intero della nuova nozione), un’attenzione fortissima a quella commutazione di tutte le forze e le esperienze storicizzate del poeta in direzione poetica, seppure con minor senso dell’ars a causa dei suoi pregiudizi romantici della composizione di getto equivalente di ispirazione sicura. Meno invece potrebbe dirsi per il Croce che, nella sua lotta aspra e risentita contro gli studiosi di poetica[7], è stato ben coerente alle sue posizioni centrali, al suo distinzionismo, al suo «purismo estetico», al suo storicismo spirito-opere, alla sua paura di ogni possibile incrinatura (malgrado la circolarità dello spirito e la cosmicità e liricità dell’arte) dell’autonomia della categoria estetica.

Sicché chiaramente va detto che, nei confronti della precisa ortodossia crociana, la nozione di poetica (sia nel suo uso di legame storiografico sia nel suo uso monografíco) è certo una nozione che rompe il sistema crociano e si colloca fuori di esso, al di là di esso, come una delle punte concrete nate dall’esperienza critica e poi variamente considerata dalla meditazione estetica nel proprio distacco dal Croce (si pensi a certi spunti del Banfi, dell’Anceschi e alle affermazioni piú recenti del Pareyson[8]).

L’adozione della nozione di poetica nella critica novecentesca italiana ha del resto avuto (pur con l’appoggio e la diffusione delle dichiarazioni degli scrittori e con l’insistenza sulla coscienza critica dell’artista nel campo della saggistica militante fra «Voce» letteraria e «Ronda» e, d’altra parte, con l’indiretto appoggio del Croce stesso con la distinzione di poesia popolare e poesia d’arte intorno al ’30) la sua prima applicazione in un côté della critica e storiografia letteraria pur di origine desanctisiana e crociana. E perciò non disposta a concedere nulla quanto alla forza e autonomia della fantasia e poesia, ma, sollecitata dalle spinte ricordate sopra, da certo unitarismo gentiliano e dalla lezione di coscienza stilistica e artistica del De Lollis, essa tendeva a far vivere poesia e fantasia in termini piú dialettici e storici e con una componente di consapevolezza e di cultura che respingeva il figurino romantico e decadente del poeta ignorante e «puro» e «fanciullo» e poeta malgrado il suo pensiero e la sua struttura culturale e morale. E affermava la storicità e continuità del linguaggio poetico e della forma poetica (il caso di Domenico Petrini[9]), appoggiava la intera necessità dell’interpretazione storicistica della personalità poetica e della sua umanità-forma, del nesso interno struttura-poesia e del nesso sociologico simbolico-lirico, proprio sull’uso della poetica: come nel caso importantissimo del Russo[10], nella cui metodologia tale nozione prendeva particolare sviluppo e costituiva uno dei punti di forzatura e apertura del sistema crociano in uno sfocio postcrociano fortemente rinnovatore e promotore di tanto lavoro critico e storico-letterario.

Fu poi nel ’36 che la pubblicazione della mia Poetica del decadentismo italiano lanciò piú risolutamente la configurazione storico-critica della poetica[11] entro l’intreccio crescente delle applicazioni di quella nozione e strumento in campo crociano, postcrociano e non crociano con un vasto irraggiarsi di posizioni, di sfumature, di giustificazioni, di appoggi di esperienze diverse che richiederebbe una storia minuta, e implicante la varia saldatura fra quella nozione e alcune tendenze della critica solo parzialmente in quella convergenti.

Basti almeno ricordare, accanto alla linea continua rappresentata dal mio lavoro e da quello dei miei scolari diretti, alcune presenze che indicano di per sé l’articolata varietà dell’uso della poetica nell’ultimo ventennio: dagli studi del Macchia e del Pizzorusso in letteratura francese, a quelli dell’Untersteiner, del Della Valle, del Setti e del Diano in letteratura greca, del Ferrero in letteratura latina, e magari del Ragghianti sull’arte greca[12].

Mentre, con maggior chiaro legame ed accentuazioni diverse di posizioni stilistiche e fenomenologiche o sociologiche e marxiste, si dovranno ricordare l’Anceschi, con un particolare impegno applicativo e metodologico; oppure il Dazzi e il Baratto nel senso piú specifico di una «poetica sociale», o il Seroni in appoggio ad un piú sicuro e storico «saper leggere», o il Muscetta con maggiore affinità ad un piú integrale ricostruire storico critico[13].

Né in tale quadro si può tacere la presenza di un critico come il Flora, che pur mai smentí la sua sostanziale fedeltà crociana, ribadita in campo storiografico con una rigida partizione monografica (malgrado l’arricchimento del pulviscolo dei minori in cui circola una maggiore continuità di climi storico-letterari). Eppure egli sentí la necessità, malgrado le squalifiche del Croce, di studiare non solo la poetica del madrigale o la poetica dell’avventuriero in Casanova (con indagini fra costume e storia letteraria meno contrastanti con le preclusioni crociane), ma anche la poetica di un poeta, il Leopardi, rilevando in sede generale come la poetica sia «in rapporto con la concezione totale della vita»[14] e dunque momento essenziale nel passaggio fra la Weltanschauung di un poeta e la sua poesia e non un semplice accumulo di pensieri sulla poesia da considerare in sede di cultura, o puro «mondo intenzionale» indifferente allo sviluppo poetico.

Per non dire del fatto che un’attenzione alla «mira artistica», al Kunstwollen riegliano, alle «intenzioni» dei poeti è rilevabile ecletticamente anche nell’uso critico o nella terminologia estetica di un Dewey, di un Auerbach, di uno Spitzer, e che l’istanza iniziale di un Cecchi secondo cui ogni poeta avrebbe bisogno di una particolare estetica e lo stesso metodo concreto di quel critico di giungere al riconoscimento della poesia attraverso «uno sforzo autentico di condizionamento storico, di valutazione di fatti culturali, di rapporti con tempi e con cose»[15], è stato a volte inteso come una sua effettiva vicinanza allo studio di poetica.

Non vorrei esagerare, ma se da una parte l’uso della parola e nozione non implica univocità e formazione di una vera e compatta corrente critica, ma implica comunque l’esistenza di un problema centrale anche se variamente interpretato, dall’altra in concreto è sempre piú diffuso un costume critico di attenzione a tutto il mondo culturale storico di un poeta e alla sua coscienza creativa e dunque con una effettiva distanza dal canone di poesia e non poesia e dalle varie forme di purismo estetico e ispirativo piú forti nel passato. Anche se ciò è molto spesso attuato in parziale direzione e con la divaricazione o con la giustapposizione, come vedremo, dei metodi stilistici e sociologici.

Tutte cose che si chiariranno piú avanti e che, a questo punto, richiederebbero un troppo lungo esame di casi particolari per far risultare, nell’uso della poetica, la diversa tensione e il diverso impegno di critici e studiosi che hanno variamente puntato sul carattere di tale strumento e metodo, come indagine sulle «retrovie dei poeti», sul rapporto fra il pensiero estetico critico e l’effettivo operare poetico nei singoli scrittori o nelle linee generali del gusto di un’epoca, solo sulla poetica esplicita e programmatica o solo sulla poetica come direzione presente nella costruzione artistica e stilistica di un poeta o di un gruppo-scuola, sul suo valore di orientamento stilistico o di raccordo dell’arte con la cultura e con le condizioni di una società.

A questo punto mi preme invece chiarire che cosa ha rappresentato e rappresenta per me lo studio di poetica.


1 C. Baudelaire, Oeuvres complètes, Paris 1954, pp. 1059-1060.

2 Non si tratta di un puro ritorno al dualismo di vecchie estetiche (buon giudizio, ragione, buon gusto ecc. senza cui la fantasia cade negli eccessi): il verbo «guide» sottolinea bene la maggiore precisione del passo baudelairiano e l’idea della coscienza critica del vero poeta è chiaramente enunciata al di sopra, non al di sotto e prima, della coscienza romantica della forza ispirativa essenziale (il critico non può diventare poeta).

3 Th. Mann, Leiden und Grösse der Meister, Frankfurt a. Main 1957, pp. 8-9.

4 L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Milano 1962.

5 L’art poétique, par J. Charpier et P. Seghers, Paris 1956.

6 Si può anche capire come, a un certo punto, qualche scrittore insospettabile di misoneismo possa reagire all’infatuazione per le «tecniche narrative» e per i nuovi linguaggi in modi quasi elementari, affermando persino che si può scrivere col linguaggio anche di cento anni fa, come Cassola possa, con una outrance impaziente, negare addirittura che esista un «problema» di linguaggio.

7 Specie negli ultimi anni del Croce. Si vedano, nel secondo volume di Terze pagine sparse, Bari 1955, i brevi scritti a p. 143, a p. 161, a p. 316. E cfr., nella Poesia, Bari 1936, il capitolo La poetica empirica.

8 V. in proposito L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia cit., pp. 15-27; e il capitolo Estetica e poetiche in L. Pareyson, Estetica, Bologna 19602, pp. 271-280.

9 Specie nel saggio pariniano o in quello carducciano, con una prevalente tendenza alla storia della poetica come storia del gusto.

10 Per la posizione fondamentale del Russo e le stesse oscillazioni della sua nozione di poetica rimando al mio saggio La critica di Luigi Russo, «Belfagor», 15 dicembre 1961, specie alla p. 723 (ora nelle nuove edizioni dei miei Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, La Nuova Italia, Firenze, 1963, 19692).

11 Si vedano – anche a misurare l’evoluzione della mia nozione di poetica in relazione a nuovi studi e applicazioni critiche – le pagine iniziali del mio libro (pp. 3-5 della 3a edizione, Sansoni, Firenze, 1961, e ora pp. 15-17 della 6a edizione, ivi 1975).

12 Cfr. G. Macchia, Baudelaire e la poetica della malinconia, Napoli 1947; A. Pizzorusso, La poetica di Fénelon, Milano 1959; M. Untersteiner, La formazione poetica di Pindaro, Messina-Firenze 1950; E. Della Valle, Lezioni di poetica classica, Napoli 1945-1946; A. Setti, La memoria e il canto, Firenze 1958; C. Diano, La poetica dei Feaci, «Atti dell’Accademia di Padova», 1958; L. Ferrero, Poetica nuova in Lucrezio, Firenze 1949, C.L. Ragghianti, L’arte greca, «Critica d’Arte», 29, 1958.

13 Cfr. M. Dazzi, La poetica sociale del Goldoni, Torino 1957; M. Baratto, Mondo e teatro nella poetica del Goldoni, Venezia 1958. Per il Seroni si veda il suo saggio gramsciano in Studi gramsciani, Roma 1955, e del Muscetta si vedano almeno i saggi leopardiani in Ritratti e letture, Milano 1961. Anche C. Salinari, nella premessa metodologica del suo Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano 1960, punta sulla novità della poetica.

14 F. Flora, Saggi di poetica moderna, Messina-Firenze 1949, p. 11.

15 R. Scrivano, recensione alle raccolte di saggi critici del Cecchi, «La Rassegna della letteratura italiana», 3, 1958, ora in Riviste, scrittori e critici del Novecento, Firenze 1965, pp. 261-288.